09.09.19 roma
Aspettando in macchina i nipotini che, in attesa dell’inizio della scuola, teniamo a casa nostra mi è capitato ieri di sentire alla radio un brano della predica del papa Bergoglio in cui si richiamava il testo di Giobbe:
Siamo «abitatori di case d’argilla, cementate nella polvere, e che si sfasciano come carie… Le corde della tenda sono strappate e moriamo senza capire». Giobbe (4,19.21)
Con il suo modo suadente e amichevole papa Francesco richiamava a partire da questa citazione alcuni dei suoi argomenti preferiti quali l’egoismo imperante, il desiderio di accumulo, l’inseguimento di traguardi fittizi che la società tecnologica ci spinge a valorizzare, la difficoltà e spesso l’incapacità di realizzare la natura non egoistica, unitaria che è in ognuno di noi. Ad un certo punto ha detto una frase che mi ha molto colpito: “ dovremmo essere capaci di vedere la nostra vita come la somma di tutte le vite con cui siamo venuti in contatto”. Proprio vero! Dovremmo esattamente realizzare che quella che apparentemente vediamo come nostra vita non è altro che il calco degli infiniti contatti con gli altri. Riuscirci significa aprirsi all’interdipendenza, all’accettazione, alla compassione. Significa porsi nella condizione di ridurre, per quel poco che è nelle nostre possibilità, la sofferenza di chi ci è vicino. Allora cerchiamo di porci in questa ottica usando i semplici mezzi a nostra disposizione: i koan, lo zazen e staremo meglio