Vedevo in televisione le immagini terribili del modo in cui sopravvivono i profughi nel corridoio balcanico, sotto la neve a piedi nudi e senza coperture
Mi sono allora ricordato di un libro di Quinzio, letto qualche anno fa, Mysterium iniquitatis, nel quale si affronta il “mistero dell’ingiustizia” e del suo perché, che termina con questa accorata e terribile invocazione del papa Pietro II : “ In questa morte culmina, e si consuma, il mistero dell’iniquità che domina l’intera storia del mondo. Non esiste altra speranza, per ogni uomo e per la vicenda di tutti gli uomini e dell’intera creazione, al di fuori della croce e della resurrezione di Gesù Cristo. A lui affido tutti e ciascuno, insieme alla mia povera persona, nell’attesa dell’ultima Rivelazione, del giudizio finale e della vita senza fine”.
Noi, che non abbiamo altri a cui affidare i nostri “perché”, che dobbiamo fare? Distacco? Esattamente il contrario di quanto la compassione, segno distintivo della nostra consapevolezza, prescrive! Inoltre fuga e distacco possono confondersi l’un l’altro e spesso lo fanno portando all’autorefenzialità e dilatazione dell’ego.
Allora forse questo “perché” che ci accompagna in ogni atto della nostra vita è nostro ma va vissuto filtrandolo attraverso la universale natura di Buddha, fino in fondo in comunione con chi soffre. Ad esso e ai suoi dolori dovremmo allora dire che ci dobbiamo “attaccare”. Forse, dovremmo essere questo “perché”, rappresentarlo in ogni momento, e per questo essere “illuminati”.