marassi su thomas merton

Riporto un commento interessante ed esplicativo fatto da Mauricio Marassi (già Stella del mattino) monaco zen su un testo di Thomas Merton, gesuita ( pardon su indicazione di Marco Valli:  era trappista ) americano.  Ne condivido l’impostazione e mi pare un modo corretto di tentare di abbozzare un” buddhismo occidentale”

I. Il proposito del buddhismo e i suoi fondamenti

Vorrei iniziare il mio contributo con un breve scritto del più “orientale” dei santi cristiani, san Francesco, che s’intitola Della vera e perfetta letizia:

«Un giorno il beato Francesco, presso Santa Maria degli Angeli, chiamò frate Leone e gli disse: “Frate Leone, scrivi». Questi rispose: “Eccomi, sono pronto”. “Scrivi – disse – cosa è la vera letizia”. “Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell’Ordine; scrivi: non è vera letizia. Così pure che sono entrati nell’Ordine tutti i prelati d’oltr’Alpe, arcivescovi e vescovi, non solo, ma perfino il re di Francia e il re d’Inghilterra; scrivi: non è vera letizia. E se ti giunge ancora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede, oppure che io abbia ricevuto da Dio tanta grazia da sanar gli infermi e da far molti miracoli; ebbene io ti dico: neppure qui è vera letizia”. “Ma cosa è la vera letizia?”. “Ecco, tornando io da Perugia nel mezzo della notte, giungo qui, ed è un inverno fangoso e così rigido che, all’estremità della tonaca, si formano dei ghiaccioli d’acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: “Chi sei?”, io rispondo: “Frate Francesco”. E quegli dice: “Vattene, non è ora decente questa di arrivare, non entrerai”. E mentre io insisto, l’altro risponde: “Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te”. E io sempre resto davanti alla porta e dico: “Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte”. E quegli risponde: “Non lo farò. Vattene dai Crociferi e chiedi là”. Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell’anima» 1.

Per venire al tema affidatomi, occorre una premessa che chiarisca alcuni punti radicati nella cultura occidentale. Il primo è che il buddhismo non esiste né in quanto religione univoca, tipizzata e simbolicamente determinata, né in quanto essenza religiosa esprimibile nel mondo della comunicazione fatta di parole scritte o orali. Vediamo il senso di queste due affermazioni apparentemente paradossali.

Il buddhismo non esiste in quanto religione univoca, dalle forme culturali definite, perché è sua caratteristica inculturarsi profondamente nei passaggi epocali da un popolo all’altro, da una cultura all’altra. Parlando in termini molto generali, il cristianesimo nei secoli passati si è sempre vestito di Occidente, ovvero nelle terre di missione ha quasi sempre collaborato con altre forze, culturali, commerciali o militari, per formare prima una cultura occidentalizzante e poi in questo nuovo terreno i suoi missionari hanno inseminato il vangelo di Gesù di Nazaret. Dove questo non è stato possibile, penso al Giappone o alla Cina, almeno dal punto di vista numerico l’evangelizzazione ha fallito. Occorre comunque prendere atto che non tutta l’attività missionaria si è sviluppata in quel senso e che all’interno della Chiesa vi sono da tempo proposte diverse rispetto a questo modello di evangelizzazione. Le più interessanti, secondo la mia sensibilità, sono le istanze di chi ha vissuto sulla propria pelle il disagio di dover imparare, assieme ad una nuova religione, una nuova lingua, una nuova cultura.

Un esempio di grande lucidità è la testimonianza di Claire Ly una scrittrice cambogiana, in origine di religione buddhista che ebbe la famiglia massacrata dai Khmer rossi di Pol Pot e fu internata per quattro anni nei campi di lavoro. Riuscita a fuggire in Francia, si è costruita una nuova vita e si è poi convertita al cristianesimo. Tornata varie volte in Cambogia, negli ultimi anni vi ha tenuto una serie di conferenze ed incontri sul cristianesimo, avendo come interlocutori dei cambogiani come lei, nati cioè buddhisti e diventati poi cristiani. Vediamo un breve brano di Claire Ly, tratto da Ritorno in Cambogia:

«Scrive monsignor Paul Tep Im Sotha vescovo di Battabang, Cambogia, assassinato dai Khmer rossi nel 1975: “Non dimentichiamo che le autorità ecclesiastiche qui sono costituite da ottimi francesi, ma così francesi che è per loro difficile farfugliare la povera lingua cambogiana”. Monsignor Tep scriveva queste parole nel 1962, ma nel 2005 la situazione continua ad essere la stessa, salvo che ai francesi si uniscono persone provenienti da molte altre nazioni. Ho l’impressione che tale realtà turbi profondamente i Khmer cattolici. Non si sentono abbastanza riconosciuti per poter osare la minima espressione Khmer della loro fede in Gesù Cristo. Se questa espressione si limitasse solo alle musiche e alle danze tradizionali Khmer nella liturgia, non sarebbe che folklore. Ma per loro si tratta di poter dire Gesù Cristo nella cultura Khmer, con il suo pensiero con la sua filosofia. È certamente un lavoro di lungo respiro ma è urgente»2.

Sempre parlando in generale, ancora più accentuato è il rapporto di esclusività o, quantomeno, di forte predilezione della religione islamica in relazione alla cultura araba, al punto che è difficile, anche per un appartenente all’islam, immaginare un islam europeo o americano o australiano, ovvero che prescinda dalla sua base culturale d’origine. Khaled Fouad Allam – sociologo, islamico, algerino che vive da tempo in Europa – riconosce il ritardo nell’elaborare una capacità di inculturazione da parte dell’islam della diaspora. Egli sostiene che la tensione che si sta determinando tra islam e cultura cristiano-occidentale è figlia soprattutto dell’incapacità di inculturazione islamica e, a causa di ciò, vede nel lungo periodo un rischio di grave involuzione sociale e religiosa, un vero e proprio declino del mondo islamico, ora nascosto dall’incremento demografico.

Il buddhismo funziona strutturalmente in modo differente: penetra in profondità nelle culture, trasformandole dal di dentro e assume fattezze congeniali alle sensibilità delle genti delle nuove terre di espansione: il buddhismo birmano, il buddhismo tibetano, il buddhismo cinese sono cosi diversi nell’apparenza che difficilmente sono riconoscibili come appartenenti allo stesso filone religioso. Al punto che in Occidente è solo da circa duecento anni che si ha contezza che il buddhismo giapponese e quello indiano sono rami dello stesso ceppo e, per di più, che non sono forme corrotte di cristianesimo. Quest’ultima era una teoria vigente sino a non molto tempo fa, suffragata persino dall’autorevolezza di Matteo Ricci, gesuita missionario in Cina sino ai primi anni del XVII secolo. Parte di questo fraintendimento deriva dal fatto che all’interno dei vari buddhismi cinesi, e per proprietà transitiva anche all’interno dei buddhismi giapponesi, coreani e vietnamiti, vi sono differenze tali che a volte li fanno apparire figli di madri diverse.

Ecco perché possiamo dire che non ci sia un buddhismo, ma che ci troviamo sempre in presenza di “buddhismi”, ciascuno dei quali è legittimo e autentico, ma lo è nella sua terra, nel suo tempo e nella sua temperie culturale.

Il secondo punto che vi offro è che il buddhismo ha una struttura completamente a-dogmatica, per cui non vi è alcuna affermazione o posizione o dottrina che costituisca fede o credenza comune a tutti i buddhismi, salvo in un caso che esamineremo più avanti. Il motivo di questa apparente anomalia è che il buddhismo nasce come esperienza personale, vive come esperienza personale e si tramanda come esperienza personale, ovvero ha un senso che è nella vita delle persone e le parole per esprimere questo senso possono cambiare perché non sono il punto centrale.

Pur stando così le cose, occorre stabilire un metodo tramite il quale sia possibile identificare il buddhismo, anche se ogni volta si presenta in forme completamente diverse dalle sue origini, altrimenti potremo parlare all’infinito di pratiche, di rituali, di usi e costumi, ma non saremo in grado di distinguere il padre dalla madre, ovvero quello che proviene da lontano e caratterizza in ogni caso questa forma religiosa e quello che invece, provenendo dalla matrice culturale del luogo e del tempo nel quale il buddhismo si sviluppa, può essere abbandonato, sostituito, modificato, perché va lasciato adattare ogni volta alle sensibilità delle sue nuove patrie.

Per tendere la rete con la quale si può fermare per un momento quel pesce chiamato buddhismo cosi da guardarlo nella sua interezza, in primo luogo occorre porre al centro del discorso la motivazione-base di questa religione, nata in India 2500 anni fa. In altre parole, occorre rispondere alla domanda: «A che cosa serve il buddhismo?» Proviamo quindi a dare una definizione funzionale di questa via religiosa: il buddhismo è una didattica nata sulla base di un’esperienza che divenne testimonianza. E questa didattica è volta alla dissoluzione del dolore, del disagio intrinsecamente presente nell’esistenza umana. È una direzione che si evince in modo univoco dalla biografia iconografica del Buddha, nella quale la vicenda simbolica è costruita in modo da delineare un percorso che parte proprio dalla presa d’atto della ineluttabilità del dolore, del disagio, nella vita di tutti gli uomini.

Detto questo, ovvero svelato il proposito fondamentale del buddhismo, vediamo di quali strumenti si sia fornita questa didattica per condurre al raggiungimento dello scopo. Vi sono solo tre elementi che qualificano la didattica buddhista come tale: un’etica comportamentale, basata sulla benevolenza e l’amicalità nei confronti degli esseri viventi e di tutta la realtà; una pratica del corpo, all’interno della quale lo spirito possa vivere l’esperienza detta «non afferrare»; lo sviluppo di una consapevolezza o visione – possiamo dire anche gnosi – che ci permetta di vedere che ogni essere, ogni cosa, ogni fenomeno di questo mondo non ha una vita sua, individuale, non vive di per sé, ma è un assemblaggio di parti, a loro volta composte da parti.

Questo stato di cose, detto pratītyasamutpāda in sanscrito, è la caratteristica di tutta la realtà fenomenica, per cui ogni ente in quanto privo di fondamento è un impermanente, cioè essenzialmente vuoto. Pur con dei “distinguo” sul significato del termine «dottrina», possiamo dire che questa è l’unica posizione dottrinale comune a tutti i buddhismi; oppure, da un altro punto di vista, è la dottrina che qualifica i buddhismi come tali. A riprova di questa affermazione, sin dai tempi più antichi è ripetuto nei sutra e negli altri scritti classici che cogliere, vedere la pratītyasamutpāda è vedere il Buddha. Valga per tutti l’esempio che troviamo in uno dei più antichi sutra, il Sālistambasūtra (Il discorso della pianticella di riso): «Una volta, o Maitreya, il Beato, vedendo una pianticella di riso, fece il seguente discorso ai monaci: “Chi, o monaci, vede la pratītyasamutpāda vede il dharma, colui che vede il dharma vede il Buddha”».

Come ho anticipato, occorrono dei “distinguo” sull’uso del termine dottrina. Pratītyasamutpāda, che solitamente viene tradotto con «genesi interdipendente», «coproduzione condizionata», «originazione mutuale», non è un concetto, un enunciato, non è neppure una formula fissa: è una consapevolezza, una visione, perciò la definizione di “dottrina” è impropria. Anche laddove non si sia in grado di sviluppare tale visione, essa è un requisito necessario, al punto che nel buddhismo giapponese si parla di fede nella «originazione mutuale» o pratītyasamutpāda.

Riassumendo, abbiamo evidenziato cinque elementi identitari: – l’assenza di un assetto fisso: ogni epoca e ogni cultura hanno il loro buddhismo per cui nessun buddhismo si può assolutizzare pretendendo che sia l’unico possibile;

– una ragion d’essere, o motivazione di fondo ovvero la liberazione dalla sofferenza intrinseca alla condizione umana;

– tre elementi operativi: etica, gnosi e pratica del corpo.

Questa è la dotazione minima necessaria perché ogni buddhismo sia veramente tale. E questa dotazione, oltre che necessaria, è sufficiente a realizzare tutti gli obiettivi che esso propone. Ma quella stessa piccola attrezzatura si rivela insufficiente a soddisfare le esigenze di fare, capire, credere, congetturare, venerare, pregare, comunicare, che accompagnano l’uomo di religione ovvero l’animo umano volto alla conversione.

In epoca indiana abbastanza tarda, ovvero attorno al IV secolo dopo Cristo, fu il fenomenalismo, proposto dalla scuola Yogācāra/Vijñānavāda, a farsi carico di parte dell’esigenza di soddisfare l’intelletto dell’uomo di religione. Ma è stato un caso unico. Prima, dopo, altrove queste funzioni sono state e sono assolte dalle culture ospitanti. Così ogni buddhismo, a seconda della famiglia culturale nel quale viene allevato, sviluppa forme di culto, riti di passaggio, riti iniziatici, rappresentazioni di forze spirituali da invocare o fuggire, persino rappresentazioni cifrate della realtà sottile, personale e cosmica … Tuttavia, come è evidente nelle marcate differenze che si avvicendano nel tempo e nelle diverse aree culturali, questi apparati non sono che un aggregato provvisorio, senza alcuna forma vincolante che li determini come il buddhismo: ciascuno di essi è solo un buddhismo e come tale ha una nascita, un periodo di fulgore, l’invecchiamento e la fine.

Vuoto e impermanenza, che descrivono la visione fondamentale della realtà mondana, dicono di un fondo senza fondo così radicale che nessun fenomeno vi può sfuggire, neppure la storia, e perciò anche la storia del buddhismo. Secondo una lettura della storia da un’ottica buddhista non è possibile determinare se il bruco è solo bruco e la farfalla è solo farfalla o se è il bruco che diventa farfalla, cioè se la farfalla è un ex -bruco. In senso essenziale, non ci sono né bruco né farfalla, essendo anch’essi assemblaggi provvisori che un giorno si disgregheranno (infatti se avessero un’identità permanente sarebbero eterni, invece quando viene il loro tempo scompaiono), perciò non c’è nulla che si possa trasformare, nulla che possa avere una storia autonoma. Ma proprio perché il bruco non ha esistenza in senso ontologico (ovvero non c’è nulla di fisso, che faccia ostruzione), allora può esserci, domani, la farfalla. Così è per la ghianda e la quercia, per i gameti e il bambino, per il bambino e l’adulto. Per ogni cosa. Nel caso del bruco, la farfalla non è identica al bruco né è altra da esso. Nel caso dell’uomo, l’adulto non è identico al bambino né altro da esso. E questo è il caso anche del buddhismo e della sua genesi nelle varie culture: ogni buddhismo non è né sarà alieno né uguale a ciò che lo ha generato.

Dicevamo che, una volta chiarito lo scopo o direzione di questa via religiosa, la dotazione minima affinché si possa parlare di buddhismo è composta da tre elementi: etica morale, pratica del corpo e consapevolezza dell’impermanenza. Questo significa che l’identità profonda del buddhismo si trasmette attraverso questi tre elementi. I quali, per quanto apparentemente semplici, essendo, come detto, di natura esperienziale, richiedono una particolare sequela, un contatto diretto, un rapporto prolungato con un anziano in grado di mostrare, vivendo, come si viva secondo il buddhismo. Indipendentemente dalle diverse forme di inculturazione, questo è il meccanismo attraverso il quale in ogni forma di buddhismo avviene la trasmissione da una generazione all’altra.

Nella seconda parte entreremo in modo più specifico in quelli che ho definito i tre strumenti didattici. In particolare vedremo la loro definizione secondo quella corrente moderna del buddhismo che definiamo Māyāyana, il Grande Veicolo o veicolo universale della salvezza dalla sofferenza intrinseca alla vita.

II. Il buddhismo Māyāyana: universalità nell’inculturazione

Proviamo ora ad esprimere con le parole proprio quello che, come abbiamo detto, si trova oltre le parole, perché appartiene alla vita viva e perciò è stretto, limitato, quando si trova all’interno di una esposizione verbale. Cominciamo dalla pratica del corpo.

Il punto focale da cui tutto si origina va identificato nel momento in cui Śākyamuni diviene il Buddha, che significa «il risvegliato», oppure «colui che ha compreso», secondo un’altra scelta traduttiva della parola buddha. Chiariamo che non è un risveglio «da», con il conseguente uscire da tutti i sogni per entrare in una sorta di realtà vera, priva di sogni e illusioni, diversa da quella che ciascuno di noi vive. E neppure buddha è «colui che ha compreso qualche cosa», che ha conquistato il contenuto di un pensiero di tipo concettuale o discorsivo o una concatenazione logica. Ciò sarebbe facilmente enunciabile e definibile, proprio perché, nel momento in cui «qualcosa» è concepito come pensiero, lo è già in una forma riproducibile alla portata di altre menti.

Il primo fatto che occorre notare è che prima, dopo e soprattutto in quel momento il Buddha era seduto. Non passeggiava assorto per il bosco, non era concentrato nella lettura di un testo sapienziale. Quello star seduto è il punto culminante della tradizione precedente, iniziata forse tremila anni prima, quando, dallo sciamanesimo della valle dell’Indo, erano nate le pratiche del corpo, in particolare la postura a gambe incrociate e schiena diritta, pratiche nelle quali il corpo diviene il mezzo di relazione con l’assoluto. Perciò il risveglio è nella forma nella quale il passato consegna il testimone al futuro: avviene all’interno della forma base dello yoga/dhyāna che poi nelle varie scuole cinesi e indiane sarà samatha/vipassana/ tsuochan/ zazen/ zogchen … ovvero la forma della meditazione seduta. E questo star seduti non è al modo delle tradizioni che lo avevano prodotto, ossia una tecnica per realizzare qualche cosa, sia essa la conoscenza, la libertà dal dolore, la purificazione: quello star seduti è già la forma del risveglio. Non vi è un risultato altro: lo star seduti è per lo star seduti.

Sul finire della notte, si racconta, si compì l’identificazione tra colui che siede, lo star seduti e il risveglio. Quindi il punto primo della trasmissione, o iniziazione che dir si voglia, è il come di quello star seduti. Nei secoli si sono usate alcune espressioni che sono entrate nella storia e con le quali è possibile descrivere quello star seduti: per esempio, in India si usava l’espressione samatha vipassana, cioè «calma concentrazione e acuto discernimento»; in Cina troviamo «il vasto cielo non ostacola le bianche nuvole fluttuanti»; in Giappone è in uso l’espressione «aprire le mani del pensiero».

Prendiamo ora in considerazione un aspetto particolare di questo star seduti, Non si tratta di costruire, fabbricare conoscenza o pensieri ma, al contrario, si tratta di lasciare, abbandonare, non trattenere. Raimon Panikkar ha coniato un’espressione che soddisfa sia la dialettica cristiana che quella induista, ovvero le due culture per lui fondanti, e dice: quello star seduti è una sorta di offerta sacrificale dell’umano. Per spiegare le ragioni di questa affermazione, ricordiamo che in quello star seduti gli occhi sono aperti …. ma non vi è nulla da vedere, le orecchie possono udire … ma nel silenzio non vi è nulla da udire, la lingua riposa contro il palato per cui sapori e parole sono esclusi, il naso si occupa della respirazione ma non ha odore da annusare, le mani riposano in grembo perciò non vi è tatto né oggetti da afferrare, le gambe incrociate rinunciano alla loro qualità costitutiva: la mobilità. La mente è desta e pronta ad afferrare e rinvangare ogni pensiero ma … non vi è nulla da pensare. Il cuore è pronto ad odiare ed amare con intensità ma … non vi è nulla e nessuno sul quale riversare il nostro odio o il nostro amore. Riprendendo in altro modo l’espressione di Panikkar, possiamo dire che quello star seduti è un donarsi integrale.

Vediamo ora il senso dell’altro elemento base, identitario del buddhismo: l’etica morale. L’atto di fondazione del buddhismo, l’istante che dà inizio alla ricerca in cui di fatto consiste questa via pragmatica, è il momento nel quale Siddhartha lascia la reggia, la moglie e il figlio appena nato, per porsi sul cammino che conduce alla soluzione della sofferenza. È chiaro che, per non essere una fuga nel privato, il motivo per cui un adulto, a sua volta padre e marito, abbandona di nascosto padre, figlio e moglie condizionando fortemente e negativamente la vita di tutti loro tre, non può essere né futile né egoistico. Un atto del genere non si giustifica con il soddisfacimento di nessuna delle istanze umane.

La liberazione di cui è alla ricerca Siddhartha è quella che scioglie dalla sofferenza ineluttabile, radicata nell’essere uomini, esseri di questo mondo; come recita il Dhammacakkapavattanasutta (Discorso della messa in moto della ruota del dhamma), sutta o sutra di fondazione del buddhismo: il pianto della nascita, la menomazione della malattia, il declino della vecchiaia, il patire della morte, la lacerazione del venir separati da ciò che amiamo, il dolore del non riuscire a possedere ciò che desideriamo, il fastidio per tutto ciò che detestiamo e non possiamo evitare.

Il voto di dedicare a tutti gli esseri il proprio cammino di ricerca – pronunciato da Siddhartha nel momento in cui lascia la sua casa – anticipa quella che sarà la scelta definitiva della sua vita: 45 anni donati alla predicazione e alla testimonianza che esiste una via, un percorso possibile che conduce e mantiene in salvo dal patire dell’uomo su questa terra. E siccome quel percorso libera da qualche cosa che è intimamente legato alla vita, che fa parte della vita, la logica conclusione è che si tratti di una soluzione trascendente: altrimenti dovrebbe negare la vita.

In estrema sintesi, quanto ora detto è la rappresentazione simbolica della ragione d’essere del buddhismo.

Nella vita giornaliera della comunità antica, la predicazione del Buddha si svolgeva legata ai fatti quotidiani; solo molto più tardi, forse verso il IV secolo a. c., si composero opere che contenevano indicazioni di natura generale. Per quanto sembri relativamente facile dare un consiglio morale su un fatto specifico basandosi sulla propria esperienza, è invece molto difficile definire dei termini di comportamento che abbiano valore generale: il punto di vista “generale” è sovrumano.

Quando si cominciarono a compilare i sutta, le indicazioni etiche furono di due tipi: quelle inderogabili perché parte del cammino stesso e quelle legate alla convivenza nella comunità e all’interno del contesto socioculturale del momento. Le prime sono indicazioni di comportamento interiore riassumibili con termini quali metta, «amicalità», karunā, «amore compassionevole», ahimsā, letteralmente «in-nocenza». Ovvero tutti termini che rimandano ad un comportamento personale che privilegia il dare, il donarsi, ossia l’assecondare con il comportamento quotidiano il movimento dello spirito e del corpo durante quella che abbiamo definito la pratica del corpo.

Il secondo gruppo di indicazioni, che a poco a poco si strutturarono in un vero e proprio codice, il vinaya, riguardava invece il modo più saggio e meno doloroso di trascorrere la vita. Indicazioni per «star fuori dai guai», per dissolvere o sopire i guai già commessi o per aumentare le ore serene nella nostra esistenza. Siccome sono norme sagge ma non inderogabili, legate “solo” all’opportunità di non caricarsi sulle spalle più pena di quella che in ogni caso ci toccherebbe portare, non sono propriamente legate al buddhismo, ma alla sua inculturazione. In un’altra circostanza, in un’altra realtà possono cambiare, proprio perché ogni cultura ha la sua saggezza e questa può essere messa in gioco, attivata, per contribuire a difendere il praticante e la comunità dagli errori, dalle distrazioni, da quelle che la nostra cultura chiama «tentazioni».

Tornando ora al discorso centrale, ovvero alle indicazioni relative al comportamento interiore, abbiamo visto che, così come la pratica del corpo consiste in una tensione interiore ed esteriore che possiamo riassumere con «non trattenere», «non aggrapparsi», il tipo di etica morale che fa parte del bagaglio di base del buddhismo è intimamente legata allo stesso tipo di movimento interiore ed esteriore: il donare o donarsi. Qui possiamo ricorrere alla cultura cristiana per rappresentare con un’analogia questi due atteggiamenti coincidenti: se la pratica del corpo la descriviamo con l’atteggiamento spirituale chiamato «sia fatta la tua volontà», l’etica morale è quella improntata al senso espresso dalla parabola del samaritano: una situazione nella quale si risponde alla realtà che ci chiama, senza essere in alcun modo coinvolti da atti precedenti e senza chiedere o aspettarci nulla in cambio. Resta da mettere in chiaro il terzo punto, quello che abbiamo definito gnosi, consapevolezza, visione.

Nel buddhismo uno dei punti di rottura con la cultura precedente consiste nell’affermazione nota come anātman, pronunciata dal Buddha in risposta ad una credenza radicalizzatasi nel brahmanesimo della sua epoca. Una credenza nata in seguito alle affermazioni upanishadiche secondo le quali ātman, ovvero sé, anima individuale e Brahman, spirito divino o spirito cosmico, sono coincidenti. Ovvero si dava per scontata l’esistenza, positiva, di un io spirituale in modo, diremmo oggi, ipostatico o reificato. Per questo tra l’altro, la credenza nella reincarnazione e nelle successive rinascite si era generalizzata, non solo a livello polare.

In ragione di ciò, la via di liberazione dell’uomo consisteva, in termini upanishadici, nel far coincidere il sé personale con il Sé divino. Questo, dal punto di vista della pratica religiosa, in molti casi conduceva ad una scelta ascetica all’interno della quale, tramite il digiuno, il controllo della respirazione o, addirittura, il controllo del battito cardiaco, si praticava, di fatto, la rinuncia alla vita in quanto azione attiva di partecipazione al mondo, per ritornare allo stato di purezza originaria dove ātman e Brahman sono indistinguibili. La scoperta del Buddha, invece, verteva sull’impermanenza di questo mondo, impermanenza dovuta alla sua natura illusoria proprio a causa della mancanza di un io inteso come elemento indistruttibile, positivo, permanente alla base di ogni cosa e di ogni essere vivente.

Le cose e gli esseri viventi, sostiene il Buddha in base alla sua esperienza del risveglio, hanno un’esistenza interdipendente, e dal riconoscere questa globale interdipendenza in tutto il cosmo – sia nel micro che nel macro – discende un tipo di consapevolezza che riconosce il vuoto come sostanza base di ogni cosa. Oppure, da un altro punto di vista, la vita di ogni essere, di ogni cosa è garantita da una serie elevatissima di relazioni e non da un nocciolo permanente.

Questa è la modalità per cui c’è la nascita, cioè l’unirsi degli aggregati; per cui c’è la morte, che è il loro disgregarsi; per cui c’è sofferenza, dal momento che, ignari di tutto ciò, ci aggrappiamo con il desiderio ad un mondo impermanente. Questa visuale offre la soluzione della sofferenza dal momento che la sua causa diviene chiara. Notiamo che, anche in questo caso, il riconoscimento che la soluzione della sofferenza non è tra le cose di questo mondo conduce a non aggrapparsi ad esse. Ovvero indica la stessa direzione nel cui alveo già abbiamo visto trovarsi sia l’etica morale che la pratica del corpo. Per cui il senso di «non aggrapparsi» unisce i tre elementi trasformandoli in tre parti di un unico processo. Al punto che una delle parti non può sussistere da sola mettendo da parte le altre due senza snaturare completamente il messaggio del Buddha: senza etica morale, la pratica del corpo e la visuale del vuoto conducono al cinismo ed al nichilismo; senza pratica del corpo, l’etica e la visuale dell’impermanenza sono pensieri vani, privi di efficacia nella nostra vita; senza la visuale del vuoto, etica e pratica del corpo non hanno direzione, non hanno senso: perché dovremmo donare comprensione e amicalità? Perché dovremmo praticare il non aggrapparsi? Se le cose hanno sostanza significa che la soluzione è nel possederle, nel trattenerle: per cui viene a mancare qualsiasi motivo per la pratica e per la ricerca del bene come base delle nostre relazioni.

Per concludere, si può assumere con una certa approssimazione che la trasmissione buddhista consista nella trasmissione da persona a persona del modo in cui funzionano nella vita quotidiana i tre punti-base. E siccome essi presuppongono una comprensione che inevitabilmente passa attraverso la vita vissuta, ne consegue che la trasmissione buddhista, al di là di riti, cerimonie e forme legate ad una certa cultura o a un certo tempo, consiste in una sequela, nell’accostare la nostra vita con una persona che già percorre quella via. Ecco perché il buddhismo parlato non esiste. Ecco perché si dice che il Buddha non abbia mai detto neppure una parola. Ecco perché sbagliamo se pensiamo che quello che avete udito e quello che ho detto sia il buddhismo.

III. Lo zen: verso un buddhismo occidentale

Per un apprezzamento personale iniziato quando lessi La montagna dalle sette balze, sono un estimatore delle opere letterarie di Thomas Merton. A mio parere, uno dei migliori libri scritti da un occidentale a proposito dello zen è proprio Lo zen e gli uccelli rapaci, di Merton. Anche se non è immune da difetti, primo tra tutti quello di essere stato scritto dopo un’esperienza limitata, sia nello studio sia nelle frequentazioni, per cui riflette i limiti delle fonti di Merton. Inoltre, per certi versi, è un poco sfacciato rispetto a quel tipo di sensibilità orientale in cui «le cose» sono alluse più che spiattellate. Tuttavia è un’opera molto coraggiosa, sottile, fondata su presupposti profondi e accurati sia di cultura sia di pratica personale, seppure non si tratti di pratica buddhista. È scritto con piglio sicuro e per nulla presuntuoso, e vi si sente la mano di chi parla di qualcosa di cui la sua vita si imbeve giorno per giorno.

Esaminiamo allora alcuni passi di quell’opera, anche perché, trattandosi delle parole di un monaco cristiano e avendo il libro di cui parlo ben tre imprimatur, può essere letto tranquillamente, senza prevenzione o timore, anche da chi appartiene alla religione cristiana. Con questo non intendo manifestare una sfiducia intellettuale nei confronti dei cristiani in particolare. Semplicemente so per esperienza quanto è diverso il tipo di accoglienza, lo spazio interiore che si apre ai testi del proprio ambito religioso rispetto a tutti gli altri. E siccome, almeno nel momento della comprensione, è necessaria un’apertura di credito che permetta un ascolto aperto, penso che l’uso di un testo scritto da un cristiano possa facilitare la comunicazione. In senso più ampio e, apparentemente, più banale, questo libro contiene le parole di uno di noi, e non di quelle di un enigmatico sino-giapponese portatore di una cultura estranea. Di Merton possiamo conoscere e comprendere la storia personale e la formazione, per cui possiamo leggere le sue parole con la consapevolezza di avere in comune con lui buona parte del retro terra religioso e culturale.

Si legge nella prima pagina di Lo zen e gli uccelli rapaci:

«Dov’è una carogna in putrefazione gli uccelli da preda volteggiano e calano al suolo [ … ] Questo librarsi, questo volteggiare, questo calare, questa celebrazione di vittoria, non sono ciò che si intende per studio dello zen anche se possono costituire un esercizio utilissimo. Non c’è alcun cadavere da trovare. Sul luogo in cui si crede che vi sia, gli uccelli vengono per un po’ a volteggiare. Ma presto volano altrove. Quando se ne sono andati, il “nulla”, il “nessun corpo” che era lì, tutt’a un tratto appare. È lo zen era sempre stato lì, ma gli insetti non l’avevano toccato perché non era il loro genere di preda»3

È un modo di esprimersi che ricorda quello del Zhuangzi, lo splendido testo taoista del IV secolo a. C., e non è escluso che Merton vi si sia ispirato; tuttavia, proprio in questa prima pagina, comincia ad apparire quell’aspetto di Merton che ho definito sfacciato. Infatti nessun autore zen come pure certamente neppure Zhuangzi, avrebbe esplicitato, per di più dopo aver già nominato «il nulla» e «nessun corpo», che quello di cui parla «è lo zen».

Contrariamente al Buddha quando fece un intero discorso sull’argomento semplicemente mostrando un fiore, in questo caso Merton non è stato in grado (o non ha voluto) tacere riguardo al soggetto e, nominandolo, in qualche misura lo intacca e, usando un termine più severo, si potrebbe dire che lo “profana”. In un ambiente di tipo zen, ovvero calato nella cultura estremo-orientale, questo modo di esprimersi è, metaforicamente, come mettersi le dita nel naso in pubblico, doppiamente errato perché disdicevole persino in privato. Entriamo ora più profondamente nel complesso discorso che sviluppa Merton.

«Innanzi tutto la coscienza cristiana dell’uomo moderno non può essere assolutamente quella dei romani del primo secolo sotto l’impero. Non può che essere una coscienza moderna. [ … ] La coscienza moderna tende allora a creare questa bolla solipsistica di consapevolezza – un io-sé imprigionato nella propria coscienza, isolato e fuori da ogni contatto con gli “altri sé” in quanto sono tutte cose, più che persone. È questo il tipo di coscienza esacerbata fino all’estremo, che ha reso inevitabile la cosiddetta “morte di Dio”. Il pensiero cartesiano cominciò col tentativo di raggiungere Dio come oggetto partendo dall’io pensante. Ma quando Dio diventa oggetto, presto o tardi “muore”, [ … ] salvo che venga cristallizzato in un idolo mantenuto in vita da un semplice atto di volontà. Per molto tempo l’uomo ha persistito in questa ostinazione; ma ora lo sforzo è diventato stremante e molti cristiani hanno capito che è vano. Allentando la stretta, hanno lasciato perdere il Dio-oggetto che ancora i loro padri e i loro nonni avevano sperato volgere ai propri fini».

( … ) «Liberata dalla tensione di mantenere ostinatamente in vita un oggetto-Dio, la coscienza cartesiana rimane nondimeno imprigionata in sé stessa. Di qui il bisogno di evadere dal proprio io e di andare verso “gli altri” in “incontri”, “aperture”, “solidarietà” e “comunione”. Ma il grande problema è che per la coscienza cartesiana anche “l’altro” è oggetto. È veramente possibile una relazione io-tu a un soggetto puramente cartesiano?»4.

Ed ecco, a seguire, un’ affermazione molto impegnativa:

«Frattanto ricordiamo che l’uomo moderno dispone ancora di un’altra coscienza, quella metafisica. Essa ha origine non dal soggetto pensante e consapevole di sé, ma dall’Essere, considerato ontologicamente anteriore alla divisione soggetto-oggetto». Sin qui, apparentemente, siamo presso il pensiero di Parmenide, ma ecco che l’aspetto religioso prende il sopravvento: «Alla base dell’esperienza soggettiva dell’io individuale c’è un’esperienza immediata dell’Essere che è totalmente diversa dall’esperienza di autocoscienza. [ … ] Non è “coscienza di” ma pura coscienza, nella quale il soggetto come tale “scompare”. [ … ] In breve questa forma di coscienza assume un tipo di auto consapevolezza diversa da quella dell’io pensante cartesiano [ … ]. Qui l’individuo è consapevole di sé come un io-da-dissolvere nel donarsi, nell’amore, nell’abbandonarsi, nell’estasi di Dio. [ … ] Questo è un linguaggio più o meno metafisico ma c’è anche un modo non metafisico di esprimere questi concetti. Non considera Dio né come immanente né come trascendente, bensì come grazia e presenza, quindi né “centro” immaginato “fuori di lì” né “dentro di noi”. Lo incontra come Libertà e Amore»5.

Merton è proprio bravo, perché in poche parole riesce a delineare il processo spirituale cristiano sviluppatosi nell’arco di alcuni secoli a diverse profondità. Seguiamolo ancora per un breve passo.

«Nello studio del buddhismo sarebbe un grave errore soffermarsi esclusivamente sulla dottrina, la filosofia formulata della vita, e trascurare l’esperienza che è assolutamente fondamentale, l’essenza del buddhismo. Questa è in un certo senso la situazione opposta a quella del cristianesimo. Perché il cristianesimo comincia con la rivelazione. Pur essendo un errore classificare la rivelazione cristiana semplicemente come una “dottrina” o una “spiegazione” (è molto dì più: la rivelazione di Dio nel mistero di Cristo), ci viene però comunicata in parole, in affermazioni, e tutto dipende dal fatto che il credente accetti la verità dì queste affermazioni»6.

Torniamo ad una pagina precedente, dove con grande acume Merton pone alla nostra attenzione la differenza tra i due approcci:

«ll lettore con un fondo giudeo cristiano (e chi non ha ancora in Occidente un fondo simile?) sarà naturalmente predisposto a fraintendere lo zen perché si metterà istintivamente nella posizione dì chi ha innanzi a sé un sistema di pensiero rivale, o un’ideologia concorrente o una visuale aliena del mondo o più semplicemente una falsa religione. Chi assume tale posizione si trova nell’impossibilità di capire lo zen perché parte dalla presunzione che sia qualche cosa che esso [lo zen] si rifiuta espressamente di essere. Lo zen non è una spiegazione sistematica della vita, non è un’ideologia, non è un modo di vedere il mondo, non è una teologia della rivelazione e della salvezza, non è una mistica, non è una via di perfezione ascetica, non è misticismo come s’intende in Occidente; insomma non rientra in nessuna delle nostre categorie. Quindi ogni tentativo di “appioppargli” un’etichetta come “panteismo”, “quietismo”, “illuminismo”, “pelagianesimo”, sarebbe assolutamente assurdo derivando dall’ingenua supposizione che lo zen pretenda di giustificare le vie di Dio verso l’uomo e [per di più] di farlo falsamente».7

Ancora un passo successivo:

«Nel cristianesimo la dottrina oggettiva mantiene la priorità sia di tempo sia di valore. Nello zen l’esperienza precede sempre, non nel tempo ma in importanza. Ciò perché il cristianesimo è una religione della grazia e del dono divino, quindi di totale dipendenza da Dio. Lo zen non è classificabile come “religione”. È infatti separabile da ogni matrice religiosa e potrebbe fiorire sul terreno delle religioni non buddhiste o di nessuna religione, e in ogni caso cerca, come ogni buddhismo di rendere l’uomo completamente libero e indipendente, anche nei suoi sforzi per la salvazione e l’illuminazione». 8

Nell’ultimo passo troviamo l’affermazione veramente più clamorosa, un altro dei motivi per cui ho definito sfacciato questo libro: l’affermazione che lo zen è indipendente anche dal buddhismo, al punto che potrebbe fiorire sul terreno di altre religioni come pure su quello di nessuna religione, contiene una mezza verità che è preferibile annacquare o rendere più relativa, per non confondere l’ascoltatore o non rischiare il ridicolo. L’uomo è composto anche di intelletto oltre che di corpo e di spirito e, così come l’uovo ha nel tuorlo la sua parte fondamentale ma non può fare a meno del guscio altrimenti anche il tuorlo andrebbe perduto, così lo zen si estinguerebbe se rinnegasse ogni legame con ogni sistema culturale o, addirittura, di edificazione spirituale. Negli ultimi 2500 anni questo sistema gli è stato fornito dal buddhismo, in futuro non si sa …

Un altro passaggio merita la nostra attenzione:

«Non possiamo immaginare come l’esperienza zen si manifesta e si comunica tra maestro e discepolo se non sappiamo che cosa viene comunicato. Se non sappiamo che cosa vuole significare, il suo strano metodo di significazione ci lascerà sconcertati e ancor più all’oscuro di quanto eravamo all’inizio. Ora nello zen ciò che viene comunicato non è un messaggio. Non è semplicemente “parola”, anche se potrebbe essere la “parola del Signore”. Non è “qualche cosa”. Non reca “notizie” che il destinatario non conosca già. Ciò che lo zen comunica è una consapevolezza potenzialmente già pronta ma non conscia di sé»9.

Particolarmente in questo caso si vede come Merton usi le parole con molta cura, riuscendo quasi a parlare senza nominare. Proseguiamo:

«Lo zen è allora non kerygma ma conoscenza, non rivelazione ma coscienza, non la Lieta Novella del Padre che manda il Figlio suo in questo mondo, ma la consapevolezza del fondo ontologico del nostro essere qui e ora, appunto in mezzo al mondo»10.

Nell’ultima frase, pur apparendo una capacità insolita nel descrivere le cose dello spirito, si notano anche i limiti più evidenti di Merton nell’approccio delle profondità buddhiste. L’affermazione che lo zen sia «da consapevolezza del fondo antologico del nostro essere qui e ora in mezzo al mondo», oltre a contenere un dualismo che mal si adatta ad un ambiente culturale buddhista e zen, è il tentativo di racchiudere in una lettura fatta di parole ciò che si può solo vivere nella sua vuota versatilità. Attiro l’attenzione sia sul termine «vuoto», sia sul termine «versatilità», in quanto la visione dell’impermanenza è vita nel vuoto, nell’assenza di un nocciolo stabile dell’esistenza, nella continua mutevolezza delle forme interiori.

Parlando della situazione più profonda dell’esperienza interiore, nel buddhismo classico è sempre stato usato il termine «risveglio», poiché implica un senso più neutro rispetto a «consapevolezza», come è neutro il gesto di aprire gli occhi; infine, nel postulare un fondo antologico del nostro essere, c’è il rischio di tornare alle dottrine brahamaniche del vedānta, differenti dalla prospettiva buddhista di anātman, non-sé, vuoto di essenza.

Se le cose stessero in questo modo, ovvero se lo zen affermasse l’esistenza di un fondo ontologico, non solo lo zen sarebbe di nuovo appiattito, identificato con una dottrina particolare, ma se, come dicevo, fosse un ritorno al vedānta, sarebbe del tutto vanificato il rinnovamento enunciato dalla testimonianza di Sākyamuni. Dal punto di vista storico, non dei contenuti, sarebbe come se si identificasse il messaggio di Cristo, la Buona Novella, con la legge veterotestamentaria: andrebbe persa proprio la Novella, la novità. Soprattutto, nelle pagine citate di Merton, manca la testimonianza di una lunga esperienza della pratica dello zazen, la pratica dell’essere corpo. Al posto della testimonianza dell’esperienza diretta, Merton ci offre con intelligenza una ricostruzione intellettuale.

Leggiamo un’ultima frase di Merton:

«Il kerygma soprannaturale e l’intuizione metafisica del fondo dell’ essere sono tutt’altro che incompatibili. Si può dire che uno prepari la via all’altra. Possono essere benissimo complementari fra loro, e per questa ragione lo zen è perfettamente compatibile con la fede cristiana e addirittura con il misticismo cristiano» 11.

Anche qui Merton, parlando di «intuizione metafisica del fondo dell’essere», con parole diverse, di nuovo pecca di eccessivo dualismo contrapponendo o distinguendo il soggetto dell’intuizione metafisica con il suo oggetto, il fondo dell’essere, al quale, in modo arbitrario, dà di nuovo esistenza positiva. Mantenendo alcune delle parole da lui scelte, al posto di «intuizione metafisica del fondo dell’essere» un modo «più buddhista» di esprimersi avrebbe potuto essere: «sedersi, o depositarsi nel fondo dell’essere senza fondo», lasciando nell’ambiguità se l’essere di «essere senza fondo» sia predicato o sostantivo. In questo modo saremmo più vicini sia alle forme espressive del buddhismo zen giapponese e in particolare di Dogen, suo massimo esponente, sia alla dialettica cara al Zhuangzj – che rappresenta il daoismo classico ossia l’argilla d’inculturazione dello Zen – che parlava di «riposare nello stampo del Cielo» (Zhuangzi II, Discorso sull’identità delle creature).

Nell’argomentare di Merton, tuttavia, notiamo un fatto interessante: con le sue parole prefigura la possibilità di uno zen cristiano. Infatti, sia quando ammette che lo zen si potrebbe sviluppare in una religione non buddhista, sia quando usa una terminologia presa dalla cultura e dalla teologia cristiana per tentare di descrivere il cuore dello zen, attua in qualche misura una sostituzione, o una sovrapposizione di buddhismo e cristianesimo a livello profondo.

Da questo punto di vista, Merton è una sorta di profeta moderno. Esprime, infatti, il buddhismo Zen nei termini di una nuova cultura tentando, e in buona parte riuscendoci, di non omologarlo, triturarlo, pur esprimendosi con un linguaggio che ancora non lo può contenere in quanto appartenente alla storia culturale cristiana. Non tenta di omologarlo, ma gli riconosce tutta la sua alterità, in particolare nel passaggio in cui dice che lo zen non è catalogabile con le nostre categorie, e perciò è improprio anche parlare di zen come «via immanente della fede», a meno di non ridefinire in modo radicale il senso di immanente. A margine, ricordiamo che «immanente» ha la stessa origine etima di «permanente», e si trova così in completa antinomia con l’unico punto fermo, in senso dottrinale, del buddhismo.

Comunque, Merton, si muove con una competenza ed un rispetto tale da legittimare lo zen come via religiosa non seconda a nessun’altra, di fatto offrendosi come fratello e riconoscendo come fratelli le persone che percorrono quella Via.

Arricchiti dalla frequentazione di Merton, facciamo una breve escursione nella Cina del VI secolo, considerando che, secondo una pubblicistica iconografica costruita a posteriori per trasmettere significato e legittimazione tradizionale, fu l’arrivo del monaco indiano Bodhidharma, nel VI secolo, a dare realmente inizio alla scuola Zen. Considerando che Bodhidharma (ammesso che sia esistito) giunse in Cina nel 520 e che quindi era in grave ritardo per dare inizio ad una storia che in quel paese proseguiva già da almeno 500 anni visto che il buddhismo è entrato in Cina non più tardi del sec. I, occorre valutare perché, nonostante tale macroscopico ritardo, si sia voluto coinvolgere Bodhidharma in questa storia.

Il motivo ci appare più semplice, se riprendiamo alcune delle espressioni usate da Merton. Fino a quel momento, fino all’arrivo di Bodhidharma, era arrivato “solo” il buddhismo inteso come kerygma, proprio nel senso in cui Merton usa questo termine. Ovvero, grazie alle traduzioni realizzate soprattutto da Kumāarajīva e poi da tutti gli altri traduttori che avevano collaborato a formare un corpo dottrinale corretto in lingua cinese, il substrato, il terreno in cui fiorire (come dice Merton), era stato correttamente trasmesso, dissodato, preparato alla semina.

Poi arrivò l’esperienza concreta e la sua forma. Infatti di Bodhidharma si tramanda soprattutto che sedette col corpo eretto davanti al muro per nove anni nella forma che ora con un termine giapponese chiamiamo zazen, ossia, il corpo e la forma vivente dello zen, l’atto religioso dello star seduti. Il nome stesso di questa scuola ha proprio quell’origine: zazen in cinese è zuochan, e significa «sedersi nel chan», dove chan è la traslitterazione di dhyāna. Questo termine sanscrito, generato sulla radice dhyai che significa pensare e contemplare, a sua volta significa «profondo assorbimento religioso». Quindi zuochan, o zazen che dir si voglia, significa l’atto religioso dello star seduti. La parte zuo, sedersi, di solito viene omessa e così questa scuola di buddhismo che si fa risalire a Bodhidharma, è chiamata Chan. Questo ideogramma in giapponese è pronunciato “zen”.

Se vogliamo compiere un ulteriore approfondimento nella contestualizzazione dello zazen, ricordiamo che il momento di passaggio, ciò che trasformò la vita del Buddha da una ricerca personale in una predicazione pubblica, aperta a tutti e quindi universale, fu l’esperienza maturata stando seduto con il corpo eretto per sette settimane. Da questo punto di vista, zazen significa «essere, porsi nelle condizioni del risveglio» oppure «assumere la forma del risveglio».

Per concludere questo breve excursus su un possibile processo di occidentalizzazione dello Zen (o Chan che dir si voglia), ricordiamo che nel momento in cui si origina questa scuola cinese concorrono a questa origine due correnti religiose: il buddhismo indiano di scuola madhyamaka e vijnānavāda e la mistica daoista. Muovendoci con molta approssimazione, in termini generali possiamo dire che, per quello che riguarda la pratica del corpo nella nuova scuola, ci si conformò ai più alti standard indiani, mentre, per quanto riguarda la visione della trama della realtà, è stata la metafisica daoista ad avere la meglio, soprattutto negli sviluppi dello zen giapponese.

In particolare, durante quel processo di ibridazione viene legata allo zen la concezione del vuoto secondo il daoismo che, di fatto, fa del vuoto il suo opposto, ovvero il massimo del pieno, rappresentandolo, come per esempio nella stanza 16 del Daodrjing, quale radice benigna da cui tutto origina e a cui tutto fa ritorno, oppure quale madre di tutte le cose, come è descritto nella stanza n. 1. Un esempio di come questa metafisica permei il buddhismo giapponese lo troviamo nella testimonianza di Endo Shusaku, un intellettuale giapponese del Novecento, cristiano cattolico sin dall’infanzia e profondo conoscitore della cultura religiosa sia orientale che occidentale, noto anche in Italia dove sono stati pubblicati vari suoi scritti. Così scrive:

«lo penso che oggi i giapponesi siano più inclini a recepire il cristianesimo perché questa fede si è trasformata, secondo me si sta avvicinando al buddhismo. Mi sembra che tra i cristiani stia cambiando il modo di percepire Dio che viene colto come una grande vita dentro di noi, come nel buddhismo, e, se chiamiamo Cristo questa grande vita, anche i giapponesi lo capiscono. Il cristianesimo privilegia il rapporto lo e Dio, il buddhismo il rapporto lo e Vero lo. Ecco, ho l’impressione che queste due concezioni stiano avvicinandosi, siano sul punto di fondersi» 12.

Il buddhismo cinese, nel corso della sua formazione, è stato permeato dalla metafisica di origine daoista, quella amalgama è stata trasmessa al Giappone senza mediazioni, ovvero come buddhismo tout court. Per questo il buddhismo, ovvero la lettura sino-giapponese del medesimo, visto con gli occhi di un cristiano orientale, assomiglia ad un’interpretazione superficiale della teologia riassunta nel termine Emmanuel, Dio in noi. Per cui da quel punto di osservazione è possibile vedere una forma di convergenza tra buddhismo e cristianesimo. Infatti, nel sentire religioso dell’Estremo Oriente, il nodo profondo di queste religioni è a volte sovrapposto perché vengono lette a partire da un senso religioso che le precede.

Tuttavia, nel momento in cui il buddhismo inizia la sua inculturazione in Occidente questo deve avvenire con materiale nuovo, ovvero tramite l’incontro tra il buddhismo originale e la cultura occidentale, non con l’incontro tra la cultura religiosa occidentale e un buddhismo già inculturato, ovvero già adattato ad una forma-cultura particolare profondamente diversa dalla nostra, come quella cino-giapponese. Se la frase di Endo Shusaku è valida per rappresentare l’incontro tra il buddhismo giapponese e il cristianesimo – o forse, meglio, tra buddhismo giapponese e cristianesimo giapponese -, non è più rappresentativa se curiamo la possibilità che il buddhismo rinasca nuovo in Occidente, pur rimanendo antico. Perché questo possa avvenire, ancora una volta si deve spogliare delle vesti acquisite nei passaggi precedenti e ai tre punti identitari, in particolare all’assunto detto pratītyasamutpāda: nulla ha una propria realtà o natura intrinseca e indipendente, perché questo, nel mondo della comunicazione simbolica, è il biglietto da visita, l’apporto originale del buddhismo. Perciò, non l’idealismo ineffabile che presuppone una radice buona da cui tutto si origina e a cui tutto torna, ma il silenzio del Buddha avvolge la reale sostanza delle cose.

Da parte cristiana, a mio parere, potrebbe esserci un rapporto più fruttuoso con il buddhismo a partire dalla teologia negativa di Dionigi o di Meister Eckhart, o dalla teologia «senza Dio» di Dietrich Bonhoeffer, quando per esempio dice che vivere nel mondo etsi deus non daretur significa porsi di fronte al mistero senza occultarlo 13. Questa è una sensibilità molto diversa dal cristianesimo di Endo Shusaku.

Penso che il nuovo rapporto che potrebbe nascere tra buddhismo zen e religiosità occidentale di area cristiana sarebbe costruttivo per entrambi a partire da un buddhismo legato alle sue origini identitarie e inculturato ex-novo in Occidente. È una proposta condivisa da alcuni cristiani, tra i quali Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose:

«L’unica, seria lotta che l’uomo non cessa mai di combattere, è quella contro gli idoli dentro e fuori di sé: lotta che non a caso accomuna in profondità maestri zen e padri del deserto. In questo combattimento la sapienza buddhista può essere di grande aiuto anche al cristiano perché la vera alternativa nel suo cammino di sequela dietro a Cristo – secondo l’interezza del messaggio biblico – non è tra fede e ateismo, bensì tra fede e idolatria. Avere chiaro nella mente e nel cuore questo dato significa accettare che l’idolatria è tentazione perenne anche per la chiesa, occasione di caduta per ogni cristiano: per la bibbia infatti non ci sono atei da una parte e popolo di Dio dall’altra, ma idolatri e credenti tentati dall’idolatria. [ … ] L’idolo è infatti una forza che rinvia l’uomo alla sua voracità e la alimenta, una dominante che sopprime ogni distanza e ogni differenza e conduce l’uomo a pretendere che tutto sia suo, a portata di mano, senza mediazioni: per questo l’idolatria si manifesta sempre come negazione della distanza da Dio e rende quest’ultimo manipolabile dall’uomo» 14.

 

* Monaco buddhista Zen, direttore della Comunità Stella del Mattino (Fano – PU). Insegna Buddhismo e religioni dell’Estremo Oriente all’Università di Urbino.

(da Vita Monastica n. 244, gennaio-marzo 2010)

 

Note

 

Pubblicato da zenrinzairoberto

nato a Trieste 12.1.47, residente da 2 anni in Tunisia, pediatra in terapia intensiva neonatale fino al pensionamento, successivamente in missioni all'estero come medico: Zimbabwe, India, Pakistan, Afghanistan. Pratica zen rinzai da 30 anni presso il bukkosan zenshinji di Orvieto, guida spirituale M° Taino già allievo di Yamada Mumon Roshi Qualche annofa, dopo aver terminato il percorso formale (che non finisce mai e forse...mai inizia) ho scelto l'ordinazione monacale. Nonno sei volte. Padre tre volte. Sposato una volta.

Una risposta a “marassi su thomas merton”

  1. Conoscevo questo articolo che è sicuramente illuminante……questo sforzo di uscire dalle idolatrie è fondante per un vero buddhismo occidentale così come per un cristianesimo autentico……su questo tema molto ha scritto, detto e insegnato anche Odile van Deth (emmauelle Marie) biblista e teologa francese.

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